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  • Immagine del redattoreFilippo Franchi

Piccolissima esegesi de La vita Comune: riconoscimento ed esilio sociale

Il riconoscimento all’interno di una comunità o di un gruppo è parte integrante della vita degli individui. “Nessun uomo è un isola”: John Donne iniziò così uno dei suoi sermoni senza sapere che questa frase sarebbe stata un punto di riferimento fino ai giorni nostri, dopo ben cinque secoli, per affermare che l’Uomo è un essere comunitario: vive in gruppo da millenni e per questo motivo egli ha bisogno che la sua comunità di riferimento, sia essa la famiglia, il luogo di lavoro o altre forme di partecipazione societaria, si accorga di lui, ne riconosca l’identità.

Che cos’è quindi il riconoscimento? senza ricorrere a definizioni precostituite, posso dire che esso è la legittimazione che individuo ha dalla propria comunità di appartenenza, che gli restituisce un’immagine positiva di sé. Al contrario, la persona che viene sminuita nel proprio essere, a cui viene rimandata una rappresentazione di sé che lo umilia per cui ne è messa in discussione l’identità stessa, viene relegato a una vita marginale, un esilio forzato che esso stesso spesso ricerca. “Possiamo essere indifferenti all'opinione che gli altri hanno di noi ma non possiamo restare insensibili ha una mancanza di riconoscimento della nostra esistenza. (T. Todorov, La vita Comune)”. Opinione e riconoscimento non sono sinonimi anche se il confine è labile; una certa opinione che altri possono avere di noi, sia essa positiva che negativa, ci dà comunque contezza della nostra esistenza, dell’essere attivi e posizionati socialmente pur in contrasto con alcuni. L’attualità della questione del riconoscimento in quanto persone è palese; viviamo in una società che respinge molto ed accoglie poco, che si lascia trasportare da pregiudizi e moralità vetuste per cui solo alcuni individui, rispondenti al canone di normalità tradizionale che molto ha a che fare con l’essere bianchi, cattolici, italiani e gran lavoratori, dà in automatico la legittimazione e il giusto posizionamento nella comunità. Il dibattito violento e costante sui migranti, per la vulgata immeritevoli di valore sociale, ne è un esempio.


L’esilio è la strada di alcuni; posizionarsi al margine della comunità, isolati da qualsiasi contatto, è la via intrapresa da chi non riesce a reagire al misconoscimento. Altri, quelli che riescono ad abbozzare una risposta, pur rifuggendo gli ambienti dove sono rinnegati, si aggregano laddove possono essere “qualcuno”, dove acquisiscono lo spessore necessario a essere visti. “Seguire scrupolosamente le abitudini del nostro ambiente ci procura la soddisfazione di sentirci esistere tramite il gruppo. Se non ho nulla di cui posso andar fiero nella mia vita, mi dedico, con accanimento ancora maggiore, a provare o a difendere la fama della mia Nazione o della mia fede religiosa” (Tzvetan Todorov, La vita comune). la Nazione o la fede religiosa sono sinonimo di comunità, anche ristretta; può essere un piccolo gruppo che si ritrova presso un luogo di culto o un’Associazione; è frequente, ad esempio, che nelle organizzazioni di volontariato, in particolare in quelle che fanno attività ad alto grado di visibilità (volontariato sanitario, protezione civile ecc.), si trovino persone che fanno della vita associativa un assoluto alleviando così l’isolamento; si posizionano in modo radicale dentro a quel contesto che li accetta e li valorizza per il solo fatto di essere presenti. Queste persone diventano tutt’uno con l’organizzazione creando un attaccamento, spesso dannoso per la loro voracità in termini di ore di servizio e l’eccessiva voglia di fare e di esserci li rende difficili da governare.

In una ipotesi peggiore gli esiliati possono costituirsi in bande dedite alla delinquenza. Poco importa infatti se la legittimazione sia dovuta al fatto di compiere azioni buone o, al contrario, riprovevoli. Si, perché il riconoscimento non è determinato solo da ciò che è socialmente accettato come moralmente giusto, esso si ha anche in gruppi le cui azioni vanno contro la pubblica morale o contro la legge. “[...] Si trasgredisce facilmente la “morale” se siamo certi del divertimento e dello stupore dei testimoni. È questa spesso l’unica fonte dei crimini compiuti in gruppo.” (Tzvetan Todorov, La vita Comune). Usando un adagio popolare, “L'importante è che se ne parli”. E’ il caso, ad esempio, delle bande giovanili che assurgono alle cronache un po’ ovunque, chiamate pubblicamente e, aggiungo, inopportunamente, baby gang. Inopportunamente perché il senso di appartenenza legittima questi ragazzi, figli di un mondo emarginato dalla società, sovente abbandonati dalle figure genitoriali, nel loro perseverare in quel tipo di condotta che li rende visibili a una comunità che altrimenti non li considererebbe.


Il riconoscimento dunque ha un alto valore sociale e umano; esso determina il destino delle persone e la crescita di ogni comunità che lo pratica con i propri membri e un regresso laddove viene esercitata la selezione degli attori sociali in base a caratteristiche che la morale comune considera giuste, o al contrario, sbagliate. Come sempre quando si parla di sociologia o di antropologia sociale è la cultura di massa a determinare lo spessore delle comunità degli individui. Più sarà alto il grado culturale più la comunità sarà inclusiva. Più le risorse del vivere civile come l’istruzione e l’educazione formale e informale saranno diffuse e alla portata di tutti, più avremo comunità in grado di riconoscere le persone per ciò che sono, esseri umani, senza che qualcuno, per calcolo politico o per semplice ignoranza, tacci qualcun altro di mettere a repentaglio la morale, il futuro e l’esistenza stessa di una collettività.


Antonio Ciseri, l'esule.

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