Qualche giorno fa in un post ironico sulle difficoltà viarie di Follonica, scrissi che se non fosse stato per la mia esperienza giovanile di Boy Scout, non sarei riuscito a trovare la strada per uscire dalla cittadina. In quell’ironia c’era un gran fondo di verità; sono stato Scout dell’Associazione CNGEI allora guidata dal mitico Don Ricci, dall’età di sette anni fino ai ventidue quando, Vicecapo Branco (Baloo per i Lupetti), quasi avviato all’attività organizzativa nazionale, lasciai il movimento per dedicarmi allo studio e al volontariato proprio mentre tentavo di prendere i “tizzoni”, una progressione nella carriera scoutistica che si acquisiva su indicazione dei Capi Scout nazionali. Poche settimane fa, mettendo a posto nella mia vecchia casa ho ritrovato la bozza della tesina che avrei dovuto presentare alla commissione: tema l’adolescenza. La decisione di lasciare fu dolorosa e necessaria anche se il cammino Scout non mi ha mai abbandonato.
L’esperienza Scout per me, ragazzino piuttosto timido, è stata importantissima in termini di crescita personale e di costruzione di relazioni amicali; quando si è bambini o adolescenti lo scoutismo è avventura, conoscenza, fratellanza, esperienze corali che per quell’età sono fortificanti e movimentate: ricordo quando supplicavamo i nostri capi di farci dormire fuori dalle tende e loro ce lo concedevano come premio. Detta così può sembrare una cosa banale e del tutto inutile ma vi assicuro che per dei ragazzi preadolescenti, l’avventura di dormire sotto le stelle era tutt’altro che scontata. Il cammino da Scout mi ha condizionato nella scelta dell’argomento per la tesi di laurea: uno studio su Rudyard Kipling (ispiratore di R.S.S. Baden-Powell, il fondatore dello scoutismo) e sui ragazzi protagonisti di alcuni suoi famosi romanzi; indagai il tema dell’esilio, della doppia cittadinanza di quei personaggi, tema che, come quello della tesina di cui sopra, mi porto dietro ancor oggi nel mio lavoro sociale con gli adolescenti e i giovani adulti. Insomma, per me lo scoutismo è stato un vero e proprio destino.
Non ho mai avuto la fortuna di prendere parte a un Jamboree, il campo internazionale organizzato ogni quattro anni nel quale oltre 30.000 Scout da tutto il mondo si ritrovano e fanno attività insieme. Chi dei miei amici lo ha fatto ha raccontato un’esperienza emozionante, e non fatico a crederlo visto quanto ero felice ed entusiasta quando andavo ai campi regionali o nazionali dove partecipavo a bellissime avventure e facevo la conoscenza con ragazzi e ragazze di tutta italia. Intessere rapporti con coetanei di tutte le regioni era avvincente perché negli anni ‘70 - ‘80 non era così a portata di mano potersi conoscere e mantenere i contatti.
I Jamboree sono un vero e proprio evento giovanile, un avvenimento di cui la stampa dovrebbe occuparsi in modo costruttivo, constato invece con rammarico di come la narrazione pubblica si stia occupando del grande incontro organizzato in Corea del Sud solo per il fatto che, a causa del gran caldo e dei disagi connessi, l’organizzazione ha dovuto interromperne lo svolgimento; alcuni gruppi hanno lasciato il campo anzitempo e si legge di un’esperienza interamente negativa e pericolosa. I mezzi di comunicazione si occupano dello scoutismo solo quando alcuni giovani incappano in disavventure, anche gravi, che dipingono i ragazzi come inetti e sprovveduti. Non va meglio sotto il profilo allegorico: nell’immaginario mediatico infatti lo scout è, solitamente, un ragazzone in calzoni corti, un po’ sovrappeso quasi sempre intento ad aiutare le vecchiette ad attraversare la strada. A mettere il carico da 90 l’infelice frase di Jack Benny, della metà del secolo scorso, su chi fossero gli Scout che tutt’oggi inquina pesantemente l’immaginario collettivo.
La realtà è ben diversa. Le decine di attività che ogni anno si svolgono in Italia educano all’autonomia, all’inclusione e alla solidarietà centinaia di ragazzi, tutt’altro che bambinoni sprovveduti, che faranno tesoro delle esperienze vissute e, come è capitato a me e a tutti quelli che conosco, ne beneficeranno vita natural durante. Io ricordo ancora due detti che mi porto nel bagaglio esperienziale: “Scout una volta Scout tutta la vita” e “fare tutto col gioco ma niente per gioco”. Lo scoutismo dunque non è un passatempo per allegri e ingenui puponi, ma una vera e propria esperienza di vita, entusiasmante ed efficace, che educa alla comunità all’amicizia.
Concludo dicendo che la vita da Scout, oltre a un invidiabile senso dell’orientamento, mi ha lasciato un segno indelebile, un'impronta che ha contribuito a rendermi la persona autonoma che sono oggi, che mi ha insegnato il rispetto e il gusto per la natura, la fratellanza tra individui e l’importanza del lavoro di gruppo, quindi esorto chiunque a far provare quest’avventura ai propri figli, non ne resteranno delusi.
Buona strada a tutti i fratelli Scout dunque e buona vita ai detrattori dello scoutismo che non sanno cosa si sono persi; noi che lo sappiamo non possiamo far altro che compatirli (fraternamente), parola di Baloo.
In foto: 1989 Vestone (Vc), campo di formazione Cub Master, io durante l’attività di “espressione” al fuoco di bivacco.
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