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  • Immagine del redattoreFilippo Franchi

La menzogna del successo

Alcune settimane fa, una ragazza di 19 anni, studentessa universitaria, si è tolta la vita nei bagni dell’ateneo Carlo Bò di Milano. Ha salutato parenti e amici con un biglietto, su cui scrive del suo fallimento che, pare, sia stata la spinta per il gesto estremo.


Vista la giovane età della ragazza è lecito immaginare che ci fossero problemi pregressi poiché 19 anni sono pochi per giudicare una carriera universitaria ma sono abbastanza affinchè un’adolescente possa sentire sulle spalle il peso dell’insuccesso, la delusione di non avere le potenzialità che alcuni modelli sociali, oggi punto di riferimento di tanti giovanissimi, impongono come strategia di popolarità. Canoni estetici che superano la perfezione (grazie anche alla possibilità di manipolare il materiale video) e che vengono interiorizzati dai fruitori dei social media, numero di follower che diventa il metro della riuscita personale, una vita sociale di plastica ma assurta al vero, con il conseguente carico emotivo di sconforto di chi non ce la fa ad essere in linea con le regole sociali contemporanee. Quando va bene i ragazzi si ritirano dalla vita sociale, quando va male compiono gesti estremi.


A rincarare la dose e ad avvilire ancor di più i giovani, la narrazione odierna sul successo investe anche l’ambito del lavoro e dello studio. Dal Rider felice descritto da La Stampa e dal Messaggero che guadagnerebbe fino a 4000 euro al mese, alla ragazza che raccomanda ai giovani di fare la gavetta perché lei, oggi manager di una start up, si è fatta le ossa lavorando come cameriera passando per il racconto della giovane studentessa che si sarebbe laureata in medicina addirittura con un anno di anticipo anche lei facendo leva sull’abnegazione. Storie che tentano di convincere le nuove generazioni che lavorare senza soluzione di continuità per uno stipendio da fame sia la base del successo, il punto di partenza per una carriera sfolgorante, ma che nascondono una trappola: tacciono su chi siano veramente quelli che le raccontano, oppure sono inventate. Al fact checking infatti il Rider felice non è quello che dice di essere, non guadagna tutti quei soldi e anzi, si scopre che è stato promotore di un contratto di lavoro ad hoc per la categoria che legittimerebbe il lavoro a cottimo, pratica fuorilegge, rigettato da alcune piattaforme oltreché dal ministero del lavoro. le due ragazze vengono da famiglie agiate, proprietarie di aziende avviate, che hanno dato loro possibilità economiche e di scelta che un giovane o una giovane di estrazione sociale più bassa non potrebbe avere. “Gavette” farlocche e storie romanzate, ma le smentite, si sa, non hanno la stessa risonanza delle notizie che tentano di sconfessare, spesso non vengono neppure lette. La prima lettura è quella che conta e le storie di vita di questi fortunati e fortunate influencer o di giovani che sono partiti dal basso, accontentandosi di stipendi al limite del lecito, creano costernazione in coloro che si rendono ben conto di non avere le opportunità giuste, perchè quello che non si dice in queste narrazioni, ma che i ragazzi sanno bene, è che non tutti hanno le stesse possibilità di partenza, che il merito di cui si vaneggia da alcuni mesi e che è entrato nella nomenclatura di un ministero, quello dell’Istruzione, sarebbe un giusto parametro se solo le condizioni iniziali fossero uguali per tutti. Lo sanno benissimo anche gli e le influencer e i vari amministratori delegati di grandi aziende, cui viene dato il mandato di raccontare quanto sia bello il sacrificio della classe operaia, mentre i loro figli sono pasciuti in Università d’elite e hanno già la strada spianata verso il potere, che erediteranno per discendenza e non per merito. E altrettanto bene lo sa chi ha responsabilità di governo e avrebbe il compito sacrosanto di attuare l’articolo 3 della nostra Costituzione, quello che recita: “E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.” 


Qui sta il vulnus. Se continuiamo a raccontare che la via sicura per il successo è il sacrificio di chi non si sacrifica affatto, chiunque si renda conto di partire in condizione di svantaggio non ci proverà neppure, oppure, se decide di rischiare, deve avere la forza di sostenere le naturali sconfitte e andare avanti; ma qui entra in gioco un altro fattore: l’educazione che ha ricevuto, gli strumenti e le competenze sociali che gli sono state trasmesse in primo luogo dalla famiglia e poi dalla scuola. 

Volere non è potere, ma, di certo, se si è stati educati al desiderio e a inseguire i sogni ovunque essi siano, anche a costo di sacrificare qualcos’altro, allora ci sono buonissime possibilità di farcela. Ma bisogna essere formati anche a gestire l'insuccesso, a vedere che, se la strada imboccata non ci porta dove vogliamo, possiamo cercarne un’altra e che non è detto la si trovi subito. Soprattutto è importante essere educati a darsi degli obiettivi sostenibili, che la vita non è quella che vediamo sui social e se non si è bravi a fare i balletti su tik tok abbiamo di certo altre competenze, se non possiamo aprire una start up possiamo attingere ad altre risorse, che il nostro valore è assoluto e indiscutibile anche se non riusciamo in un obiettivo o a emulare l’idolo di turno


La differenza la fanno la ricchezza educativa, le letture, l’educazione emotiva; in un paese in cui l’ignoranza è diventata un valore di cui andare fieri, in cui si crede che l’università della vita sia migliore della cultura, nel quale la scuola è ormai da tempo (dai miei tempi più o meno) fuori dalle necessità della politica, che preferisce compiacere la grande industria anziché mantenere alto il livello culturale dei propri cittadini, la sfida è difficile e le agenzie educative delegano ai social il compito di mostrare la via. Come afferma la giornalista Mariangela Pira, intervenendo sul caso della

diciannovenne suicida: Avrei fatto lo stesso percorso se ai tempi il modello offerto oggi dai "social" fosse stato così pervasivo? Se anziché i libri e la tv di un certo tipo avessi avuto Instagram e Tik Tok? Forse no. E sarebbe stato un peccato. [...] 

Si muore. Ci si ammala. Ma a chi interessa la perfezione? Ma non siete stanchi di questi modelli perfetti?



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