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Immagine del redattoreFilippo Franchi

Il Padre Normativo



“Davidson è seduto, con i suoi poveri occhi sgomenti, sul lettuccio della sua camerata.

[...].

Ha il quaderno sulle ginocchia. E vuole scrivere. Ma non sa cosa scrivere, perché non sa quali sono i suoi sentimenti, a proposito del suo villaggio, rispetto alla cultura che glieli richiede.”


Pier Paolo Pasolini, Il padre selvaggio.



Il Padre normativo, l'assonanza e la crasi con il Padre selvaggio di Pasolini e il genitore normativo di Berne è assoluta e voluta, è colui che, nel mio intendere la figura della guida, ha le caratteristiche del Padre Patriarca che modella la vita dei figli e delle figlie senza preoccuparsi dei loro bisogni perché il perpetuare la tradizione e il proprio privilegio è l'unico scopo generativo. Più di tutto, questo concetto, mi evoca l’idea di una persona incapace di comunione di intenti, che utilizza la posizione di dominio per fuggire alle responsabilità del vivere in relazione, che fa uso dell’autorità per normare la vita altrui in maniera asettica, senza contraddittorio, e, soprattutto, senza contatto emotivo.

Quando parlo del padre normativo quindi, sottintendo un'idea disfunzionale dell'entità educativa. Non mi riferisco dunque al solo ruolo genitoriale ma comprendo nell'accezione qualsiasi individuo guida: il manager, il capo gruppo, l'allenatore sportivo ecc. Queste persone, dal cui lavoro dipende un risultato di sviluppo, sia esso aziendale, umano o sportivo, generalmente non permettono agli individui di crescere, a causa della loro incapacità di fidarsi e di trasmettere nozioni e idee, non gratificano ma al contrario mortificano con l'uso della sola modalità repressivo/denigratoria, non si assumono responsabilità e sono perlopiù aggressivi nel modo di comunicare. L'azione di riconoscimento del valore dell'altro è nulla.


Il padre normativo perpetua l'idea che il ruolo maschile nella società sia quello di fare la guerra per cui si deve essere perennemente in conflitto con qualcuno, stimola la competizione anziché la cooperazione e avvelena i rapporti interni al gruppo di lavoro, alla squadra sportiva o in qualsiasi tipo di comunità esso operi.

È un lascito culturale millenario di cui a fatica in molti cercano di liberarsi. Qual è l'antidoto ai danni creati dal padre normativo? L'avere cura. Cura dei bisogni, delle relazioni, della crescita e del riconoscimento delle persone che siamo chiamati a guidare. Cura nel rinforzare le competenze, nello smorzare i conflitti, nell'insegnare il valore delle differenze e nel gestire le crisi in maniera costruttiva. Coinvolgere il gruppo nella progettualità.

Nella società della performance e dell'aggressività tutto questo può sembrare assurdo ma se un colosso come Google ha addirittura deciso di creare spazi per la meditazione dedicati al personale, possiamo renderci conto di come il valore del capitale umano sia imprescindibile per la crescita.

L'affossamento di questo valore per l'incapacità di ascolto e la paura di perdere un privilegio o per una anacronistica mania del controllo assoluto, è pura miopia sociale che incrementa la decrescita ed esaspera ancora di più la vita alle persone che si troveranno, pur all'interno di un gruppo, misconosciute e sole. Impariamo la cura dunque, andiamo contro agli stereotipi millenari che la credono una capacità per persone deboli e usiamo la nostra intelligenza emotiva per cambiare paradigma sociale. Non ne trarremo che giovamento.



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