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Immagine del redattoreFilippo Franchi

Cosa dovremmo imparare davvero dalla Pandemia. Una riflessione linguistica.

Ne saremmo dovuti uscire migliori e ne ero convinto anch’io, ma, a ora, solo chi aveva già delle risorse proprie, intellettuali e umane, è riuscito a migliorare o, quantomeno a non peggiorare. Saremmo dovuti essere più umani, più attenti, fare tesoro di molte opportunità che la pandemia ci ha fatto scoprire, avremmo dovuto forse parlare di meno, stare meno sui social e leggere più libri.


Ancora si può rimediare credo.


Tra le tante cose da imparare in questo periodo dovremmo cogliere una lezione che ci viene dalla linguistica e che è specchio fedele di questo momento storico, povero di moltissime cose compresa la lingua italiana con la rarefazione sistematica del suo utilizzo a detrimento della comunicazione interpersonale e non solo.


In questi giorni ha girato un pensiero di Cristophe Clavé, coach e manager d’azienda, in cui egli rileva una regressione del QI medio delle persone attribuendone la responsabilità a un impoverimento della lingua parlata. L’idea è a mio avviso fondata. L’uso delle parole è strettamente collegato con la funzionalità cognitiva e comportamentale quindi un diradamento del vocabolario crea certamente un danno socioculturale evidente. Ce ne da contezza la grande diffusione del famoso analfabetismo funzionale ovvero l’incapacità di comprendere un testo e l’impossibilità, per questo, di evolvere cognitivamente.


Se si ragiona calando questo assunto nel lunghissimo periodo di emergenza sanitaria globale che stiamo attraversando, si nota che Il grande assente nei ragionamenti e nelle esternazioni sulla pandemia, ma non solo su quella, è il modo Condizionale. Il modo del dubbio e dell’incertezza è surclassato, nella comunicazione odierna, (a dire il vero lo noto da molti anni) dall’imperioso Indicativo, in particolare al tempo Presente che è, quando usato male, il modo della sicumera. In troppi infatti hanno parlato, e parlano ancor oggi, per verità incondizionate usando Presente e Futuro Indicativo a piene mani; opinionisti, virologi, esperti di tutto si sperticano continuamente nel comunicarci le loro verità rivelate prive di dubbio alcuno pur parlando di una materia, la medicina, che è una scienza inesatta e interpretabile per antonomasia, e lo ha dimostrato smentendo spesso, in tutto o in parte, quanto è stato affermato con sicurezza. Il carico da 90, a dire il vero, ce lo mettono i titolisti; sono loro che danno forma imperativa e molte esternazioni. Il risultato di questa arrogante modalità comunicativa è lo smarrimento e la rabbia da parte di chi legge proprio perché il linguaggio scritto e parlato e i relativi messaggi da esso veicolati, non sono innocui, influiscono sulla mente, le emozioni e i comportamenti. Le aspettative non soddisfatte di una soluzione sicura e rapida alla pandemia e l’arroganza dei toni perentori, accentuano la rabbia e la disillusione.


Un moderato "potrebbe essere" avrebbe un impatto ben diverso di un assoluto "è".


Una delle frasi più vituperate di questa lunga stagione, “il virus è clinicamente morto”, pronunciata alle soglie dell’estate dal Professor Zangrillo, primario al San Raffaele a Milano, è l’esempio di quanto affermato poco sopra. Il Professore dette questa notizia basandosi sui ricoveri. La protervia dell’enunciato, fatto in un momento storico particolare, in cui effettivamente sembravamo essere usciti dall’incubo ma era necessaria forse ancora molta cautela, causò irritazione nei detrattori del Professore e conforto nei suoi estimatori che iniziarono a gridare contro le misure di sicurezza governative dipinte come una “dittatura sanitaria”, leitmotiv della calda estate 2020. La sfortuna volle che nel settembre scorso, proprio uno dei pazienti più illustri del Prof. Zangrillo, Silvio Berlusconi, si ammalasse di Coronavirus sollevando ilarità negli avversari del primario e minando seriamente la credibilità di quanto affermato alcuni mesi prima. La recrudescenza poi del virus che ha ricominciato a imperversare con numeri pre lockdown, ha costretto il Professore a fare marcia indietro.


“secondo i dati in mio possesso il virus dovrebbe essere clinicamente morto”: dirla così avrebbe avuto, a mio avviso, un effetto diverso; con quel condizionale presente la frase assume un tono ossimorico di “certezza dubbiosa” e quel “dovrebbe essere” mette al riparo da brutte figure in caso le cose vadano diversamente da quanto pensato; soprattutto, inducono alla cautela chi le legge moderando le aspettative e evitando delusioni cocenti in caso di errore.


L’esempio è solo uno dei tanti che avrei potuto fare, è forse il più famoso e in molti lo ricorderanno, per questo mi agevola nella stesura di questa riflessione.


Quanto detto sopra dovrebbe valere per ogni argomento di cui si parla o si scrive perché quale che sia l’ambito che stiamo trattando, un ricorso accentuato al Condizionale ammorbidisce l’enunciato e ne smorza rabbiosità. Inoltre, sottolineare che stiamo parlando senza certezza assoluta di una nostra inferenza, ci mette al riparo dal concetto di aver fallito in caso si venga smentiti dai fatti.


Un doppio risultato quindi che dovrebbe spingerci a un uso più articolato della nostra bella lingua per preservarci da quell’atrofizzazione cognitiva che ogni parola perduta provoca.




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