Ma dinanzi all'alterità del corpo animale l'uomo ha vissuto esperienze di fascinazione spesso per quel radicamento animale nella natura [...] Ha soprattutto dispiegato tutte le forme della violenza, procedendo a una, per dir così, disanimazione dell'altro, oppure riducendo l'altro a materia per la propria alimentazione. (Antonio Prete, Compassione)
Le immagini delle madri Ucraine e dei loro bimbi sfollati dalla guerra mi riportano alla memoria altre madri e altri bambini, quelli respinti nel 2016 alle porte di Goro, in provincia di Ferrara. La compassione che tutti noi oggi sentiamo per le madri di Mariupol o di Kiev non fece presa in quel periodo nel quale donne e bambini scappavano dall’Africa martoriata da povertà e guerre civili: imperversava la politica disumana dell’esclusione, la narrazione dell’invasione e della sostituzione etnica nella cui trappola sono caduti in molti. Fu la politica a ridurre quelle donne e quei bambini a “materia per la propria alimentazione” e furono in tanti a cibarsene.
Cerco la spiegazione di questo cortocircuito umanitario, la domanda è sempre la stessa: perché alcuni hanno più dignità di altri? per darmi una risposta plausibile ritrovo in Antonio Prete un altro passo, una teoria che mi colpisce, soprattutto alla luce di una conversazione avuta stamani mattina per la quale ringrazio la mia interlocutrice per lo spunto che poi ho ritrovato nelle parole seguenti:
Tanto più siamo inclini alla compassione quanto più ci sentiamo esposti noi stessi alle avversità: il male che colpisce gli altri può apparire, in questo caso, come qualcosa che anche a noi potrebbe accadere. Da qui bisognerebbe concludere che è più l'amore per noi stessi che quello per gli altri a muoverci verso la pietà. Insomma dinanzi al male altrui noi speriamo di poterci preservare, di essere risparmiati, e dunque esprimiamo con questo pensiero ancora una volta l'amore per noi stessi, prima che l’interesse per gli altri” (ibid.)
Prete evoca Rosseau ed è forse qui la spiegazione per la quale le madri della lontana Africa, scure di pelle, distanti nella cultura, hanno meno valore umano delle madri ucraine? le ultime sono più europee, ci somigliano di più, abitano in palazzi simili ai nostri, vestono come noi, sono bianche come noi. Eppure gli attentati, la guerriglia tra le basse case e le polverose strade africane, fanno lo stesso rumore a sentirli, gli scoppi delle bombe hanno lo stesso fragore. I reportage quotidiani della guerra spingono l’angoscia per il pericolo atomico, per una possibile invasione che vada oltre l’Ucraina, vediamo continuamente la disperazione delle persone stipate nei sotterranei, nelle gallerie della metropolitana, ammassate nella speranza di prendere un pullman o un treno per la salvezza. Nel periodo in cui l’Africa faceva notizia, intorno agli anni ‘10 / ‘15 di questo secolo, abbiamo visto le medesima disperazione dopo le bombe di Boko Haram o le incursioni di guerriglieri in Congo, le stragi nel Darfur, ma non sono bastate per sollecitare la stessa compassione: sono più lontane, sono diverse da noi in quasi tutto quindi l’immedesimazione con il nostro destino pare impossibile. Le madri di Goro e Gorino avrebbero potuto “sporcare” quel luogo (interviste del Corriere della Sera http://www.corriere.it/cronache/16_ottobre_26/dicono-undici-donne-2d911842-9af0-11e6-97ec-60bd8f16d4a5.shtml).
Dirò di più: chi oggi si fa paladino dell’accoglienza dei profughi Ucraini, l’Ungheria, è il paese che ha eretto muri di filo spinato contro gli sfollati dalla martoriata Siria; le foto dei bombardamenti e della fuga di civili da Aleppo sono sovrapponibili a quelle odierne, erano solo pochi anni fa, ma, evidentemente, anche loro, come le madri africane, erano poco somiglianti ai caratteri europei.
Non è dunque compassione quella per le donne Ucraine, forse è solo egoismo.
La compassione: una passione condivisa. Ma anche un patire in comune, un patire insieme. Una prossimità all'altro, alla sua ferita.
La compassione è tuttavia un sentimento raro. Perché rara è l'esperienza in cui il dolore dell'altro diventa davvero il proprio dolore. (Ibid.)
Questa è la premessa che Prete fa nel suo libro: una premessa che porta all’immediato disincanto, che toglie l’illusione che la compassione sia un sentimento comune e diffuso, quando invece è più spesso una condiscendente benevolenza, come quando si gettano monete nel cappello del mendicante senza guardarlo negli occhi.
“La parola compassione spesso copre, come un confortevole velo, un sentire in cui l'attenzione all'altro, alla sua pena, si accompagna un certo compiacimento del soggetto compassionevole, a una silenziosa conferma della sua bontà d'animo. (Ibid.)
E quanto sia raro lo possiamo vedere e sentire: lo leggiamo sui social, lo ascoltiamo dalle voci vive di politici e cittadini. Si rimane stupiti che nel 2022 la guerra sia ancora un mezzo per affermare il dominio, ma se analizziamo le parole, i toni pieni di rabbia, se scorriamo le foto di barricate contro altri esseri umani, muri eretti a baluardo di non si sa quale civiltà, non possiamo stupirci che i conflitti armati siano ancora oggi una realtà. Sembra il nemico l’altro da noi necessario e non colui in cui posso rispecchiarmi, in cui appare l’altro me.
Nell’altro appare il sé. E in questa conoscenza si incontra la sostanza e la ragione del vivere, che è la comune appartenenza al mondo, a questo stare nel mondo. (Ibid.)
La negazione dell’altro, anziché la sua valorizzazione in quanto nostro specchio, ha il sapore nichilista della rinuncia alle emozioni. La compassione ci consente la compartecipazione alla vita altrui senza per questo togliere la capacità di astrarsi. E’ il gioco tra attore e spettatore: il primo rende partecipe il secondo ma lo spettatore, pur potendosi immedesimare, resta comunque disancorato dal palcoscenico e dal personaggio che vi agisce sopra: questo lo rende capace di critica.
La mancanza assoluta di partecipazione emotiva invece inaridisce le relazioni, le percepisce in base all’esteriorità e al pregiudizio che le visioni acritiche si portano con sé. L’altro quindi non è visto come una persona come noi ma una persona contro di noi, un potenziale pericolo. Sembra essere una necessità ancora diffusa quella di individuare il nemico sul quale rigettare tutta la rabbia che non riusciamo a indirizzare verso il vero artefice delle nostre pene. E’ una pratica che viene da lontano nel tempo e che ancor oggi paga in termini elettorali e sociali.
Il nemico necessario: il lungo medio evo dell’umanità è questo.
Augurare di non soffrire alle persone che non ci piacciono e che teniamo può sembrarci un salto troppo grande, ma è l'occasione buona per ricordarci che quando il nostro cuore diventa di pietra, facciamo male a noi stessi. La tendenza alla paura, alla rabbia, all'autocommiserazione si rafforza e si intensifica ogni volta che ci ricadiamo. La cosa più compassionevole che possiamo fare è troncare questa abitudine. Invece di continuare a tirarci indietro e a erigere muri, possiamo fare qualcosa di imprevedibile ed esprimere un aspirazione compassionevole (Pema Chödrön, consigli a un guerriero compassionevole)
Un ossimoro il “guerriero compassionevole” ma come spiega lo stesso Pema Chödrön il guerriero cui si riferisce non è quello che uccide e fa del male ma è il Bodhisattva, colui che ascolta le grida del mondo e aiuta gli uomini ad andare verso la luce.
Stupisce questa sterzata improvvisa verso la filosofia orientale? non dovrebbe, ci ricorda che la cultura della compassione, del dolore condiviso e sostenuto insieme, è una pratica antica, diffusa e fonte di pace. E’ facile da perseguire? no naturalmente, anch’io mentre scrivo mi pongo mille domande; compassione è vedere con un terzo occhio e sentire con un terzo orecchio, ci vuole pratica, bisogna provare, bisogna andare oltre alla valutazione di chi abbiamo davanti, che è una mera costruzione culturale, e vedere l’essere umano che c’è sotto; e potremmo stupirci di come le madri africane respinte e le madri di Mariupol accolte siano alla fine le stesse persone.
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