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Immagine del redattoreFilippo Franchi

Coltivare il dubbio: ovvero come leggere il presente facendo un esercizio di umiltà.

Aggiornamento: 15 ott 2023

Ad alcuni anni dalla morte di Luciano de Crescenzo, rispolvero questo suo vecchio detto: “solo gli stupidi non hanno dubbi. Ne sei sicuro? certo, non ho dubbi”. Può sembrare una boutade ma invece, in tempi come questi in cui la sicumera è all’ordine del giorno a fare da cornice a certezze granitiche, non di rado prive di fondamento logico, vale la pena riprenderlo dal cassetto dei ricordi e ragionarci su. Per me è un leitmotiv e, rivedendo alcuni miei scritti del passato recente, è il convitato di pietra di tutte le mie riflessioni sulla lettura critica di quanto ci succede intorno.


Dubbio, ma cosa significa questa parola? viene dal latino “dubius” ed ha la sua radice nella parola “duo”, due; quindi avere dubbi è avere un doppio pensiero su qualcosa, non avere la certezza che ciò che produce la nostra mente sia realmente vero. Ho parafrasato il significato ma potete verificarlo sul vocabolario Treccani on line.


Coltivare il dubbio quindi è un’azione per persone insicure? no, affatto, a meno che il dubbio non divenga un continuo rovello patologico e sfoci in inerzia che impedisce di prendere posizioni o, peggio ancora, decisioni su fatti importanti della propria vita: si chiama appunto dubbio patologico ed è attinente alla sfera delle disfunzioni cognitive e psicologiche.


Il dubbio di cui voglio parlare qui è quella sana pratica intellettuale di confrontare un nuovo stimolo culturale o sociale, derivato da fatti o letture, con il nostro bagaglio educativo e col pensiero critico, metterlo nel piatto della bilancia cognitiva e iniziare a fare inferenze sul significato di ciò che abbiamo di fronte. Si deve confrontare l’attendibilità delle fonti, integrare le informazioni più disparate con ciò che già sappiamo e aumentare la conoscenza laddove ne manca una parte, bisogna fare l’analisi critica di ciò che ci circonda in modo profondo, sia con modalità razionali che con l’attivazione dell’intelligenza emotiva. E alla fine di tutto questo lavorìo cerebrale farci un’idea sulla nostra nuova informazione e prendere finalmente posizione su di essa; però, a meno che non sia un fatto lapalissiano, continuare a parlarne comunque al condizionale. Invece, l’impressione che ho leggendo i social e parlando con le persone, è che la coltivazione del dubbio si limiti a pensarla al contrario da ciò che immaginiamo essere il pensiero dominante. Questo del pensiero mainstream è un argomento che ho già toccato e non ne riparlerò. Essere contro in maniera passiva pare essere l’unica modalità di praticare il pensiero critico.


Un fatto non ha una serie infinita di significati, una riflessione non è lecita solo perché si invoca la libertà di pensiero. La verità esiste, può essere multiforme e mediata dal punto di vista dell'interlocutore, ma esiste. “Sostenere che l'interpretazione (in quanto caratteristica basilare della semiosi) è potenzialmente illimitata non significa dire che l'interpretazione non abbia un oggetto, che fluisca come il Liffey di Finnegans Wake, semplicemente fine a se stessa. Dire che un testo virtualmente non ha limiti non significa che ogni atto interpretativo possa avere un esito felice. [...] Come suggerisce maliziosamente Todorov [...] un testo sarebbe solo un picnic dove l'autore porta le parole e lettori Il senso.” (U. Eco, Interpretazione e Sovrainterpretazione); l’interpretazione di cui parla Eco è quella testuale ma anche un fatto che cos’è se non un testo i cui segni che lo compongono sono avvenimenti anziché parole? George Steiner affermava che “tuttavia, questi argomenti, come pure i problemi filosofici in essi impliciti, non si limitano alla parola parlata o scritta. l'attuale disciplina (se così si può chiamare) della semiologia si rivolge a ogni mezzo il sistema segnico concepibile. il linguaggio essa sostiene, è soltanto uno fra un'infinità di meccanismi di comunicazione, grafici, acustici, olfattivi, tattili, simbolici.” (G. Steiner, Dopo Babele).


L’interpretazione quindi, sia essa testuale che fattuale, ci rimanda a una serie finita di manipolazioni. Il dubbio allora dovrebbe sostanziare la base di ogni attività intellettuale; esso dovrebbe essere lo strumento con il quale un osservatore valuta quanto lo circonda tenendo conto di contesto e attori sociali coinvolti, formula delle ipotesi possibili in base a evidenze reali e realistiche e resta in ascolto, in attesa di vedere confermata o “falsificata”, nel senso inteso da Popper, la sua teoria (o entrambe le cose in sequenza).


L’ispirazione sul senso delle cose ci viene dunque dall’incertezza e dal rovello cognitivo che questa ci provoca. Un nonsense? può darsi, per me no; a corroborare questa ipotesi mi è venuta in soccorso la pagina culturale Tlon, di Maura Gancitano e Andrea Colamedici. Mentre scrivevo questo testo mi sono imbattuto in un loro post nel quale si citava il “non so” pronunciato da Wislawa Szymborska relativo all’ispirazione. Inizialmente avevo contestualizzato quel “non so” in un altro quadro interpretativo, poi avanzando con la lettura: “Pensiamo che l'ispirazione passi dalla padronanza assoluta delle cose del mondo, confondiamo la conoscenza con la certezza e non capiamo che il sapere è soltanto il trampolino dell'ispirazione: più è elevato, più il salto della scoperta potrà essere straordinario, a patto di conoscere i propri limiti. Il fatto è che sappiamo molto poco del mondo che ci circonda e accorgerci di quanto ignoriamo può essere devastante, può farci perdere in un attimo la terra sotto i piedi.” (https://www.facebook.com/100044155613409/posts/474685134013336/)


Quel confondere “la conoscenza con la certezza” è per me la chiave di volta per comprendere quanto siamo arroganti nel dirci sicuri di qualcosa. Purtroppo ci cado anch’io ogni tanto, tolgo il condizionale e dimentico l’assunto socratico sapere di non sapere che è alla base del dubbio e che ci dovremmo sempre porre come metro di giudizio; insieme alla paziente attesa di nuovi sviluppi culturali e sociali che potrebbero dare nuovo corpo alle nostre teorie oppure sconfessarle del tutto, bisogna avere la consapevolezza che per quanto si siano letti “un milione di libri”, ce ne sono altrettanti da leggere per colmare in parte le lacune della nostra conoscenza, in un sempiterno divenire che non ci dovremmo mai stancare di incoraggiare. Alla fine, tutta questa riflessione sul dubbio si condensa in una parola: umiltà. Non dovremmo mai dimenticare di farne un uso spropositato senza paura che questo ci faccia sembrare deboli e insicuri.


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